La pandemia da coronavirus ha inciso profondamente su molti aspetti della vita quotidiana e della società. Il mondo è cambiato dalla notizia dei primi contagi in Cina nel dicembre del 2019. La “polmonite misteriosa” che aveva colpito la città di Wuhan si è trasformata presto in una epidemia di carattere globale, che ha messo in crisi anche i migliori sistemi sanitari. Si è reso necessario, quindi, chiudere le frontiere, limitare gli spostamenti e rispettare le regole del distanziamento sociale.
Per milioni di persone, però, la crisi sanitaria ha rappresentato, oltre a questo, anche un ostacolo per l’approvvigionamento alimentare. Il problema della fame, che riguarda quasi 700 milioni di persone nel mondo, è uno degli aspetti che la pandemia sembra aver contribuito ad accentuare. L’emergenza di nuove malattie infettive, dunque, è un pericolo non solo per la salute, ma anche per la sicurezza alimentare globale. I ricercatori dell’università dell’Illinois hanno descritto il problema in un report, dove suggeriscono anche quali strategie adottare al fine di prevenire le prossime pandemie e garantire a chiunque l’accesso alle risorse alimentari.
Sempre più poveri a causa della pandemia
Il problema non è il contagio, anzi sembra che la trasmissione del virus tramite cibo o confezioni contaminate sia pressoché trascurabile. La pandemia, piuttosto, rischia di limitare – e lo sta facendo – la disponibilità di cibo e l’accesso da parte del consumatore.
A fare le spese della crisi sanitaria sono soprattutto gli abitanti dei paesi più poveri, che spendono oltre il 70% del loro reddito in cibo. Le misure del distanziamento sociale, indispensabili per contenere la trasmissione del virus, costano caro: la pandemia ha causato una contrazione del 3,5% dell’economia globale nel 2020. Si stima che il numero di persone che vivono in estrema povertà – e che avranno sempre più difficoltà a comprare il cibo – potrebbe aumentare di 90-150 milioni in tutto il mondo (Fig.1). In particolare, l’Asia centrale e meridionale e l’Africa sub-sahariana vedranno i maggiori aumenti, con 54 milioni e 24 milioni di persone in più che vivranno al di sotto della soglia internazionale di povertà come conseguenza della pandemia.
Conseguenze sulla filiera alimentare
La comparsa di nuove malattie infettive rischia anche di rallentare la catena di produzione e distribuzione del cibo e di fare aumentare i prezzi. Non è strettamente il caso di COVID-19, ma il report cita anche le epidemie a carico del bestiame o delle coltivazioni, che emergono a causa degli stessi fattori che hanno sancito il trionfo globale del coronavirus.
Anche COVID-19, comunque, ha influito, seppur in modo relativamente lieve, sulla produzione alimentare. Un esempio è quello dei lavoratori stagionali, che lo scorso anno hanno incontrato difficoltà a spostarsi da un paese all’altro. La mancanza di forza-lavoro e le restrizioni agli spostamenti hanno causato ritardi nella raccolta e nella consegna dei prodotti, oltre che nell’approvvigionamento di semi e fertilizzanti, e hanno aumentato i costi di deposito della merce .
Sui luoghi di lavoro, la necessità di mantenere il distanziamento sociale può aver influito negativamente sulla produzione. Dove invece i lavoratori hanno continuato a operare in spazi ristretti e sovraffollati, il rischio di contagiarsi – e quindi di rallentare ulteriormente la filiera produttiva – è stato più elevato. In molti paesi africani, diversi mercati informali, che rappresentano la principale fonte di approvvigionamento alimentare per gli abitanti dei villaggi, sono stati costretti a chiudere o a sottostare a molte limitazioni.
Meno intuitivo è l’effetto della pandemia COVID-19 sulla concomitante diffusione di altri patogeni, spesso associata al cambiamento climatico. L’emergenza coronavirus ha interrotto, o comunque compromesso, i programmi di controllo e sorveglianza destinati a un’altra emergenza, quella delle locuste. La terribile piaga ha decimato le coltivazioni in India, Pakistan e Africa orientale.
Come prevenire le prossime pandemie?
COVID-19 non è stata la prima e non sarà l’ultima infezione trasmessa dagli animali all’essere umano. Si stima che esisterebbero 1,7 milioni di virus ancora non scoperti nel mondo animale e almeno 850.000 potrebbero trasferirsi all’uomo. Il 60% delle nuove infezioni, spiegano i ricercatori, è legata al contatto con gli animali, specialmente quelli selvatici.
Le attività antropiche distruggono le aree naturali e spostano piante o animali dai loro habitat. Creiamo continuamente opportunità per i patogeni di “saltare” in un nuovo ospite. Allevamenti intensivi, deforestazione e commercio illegale di animali hanno alterato l’ambiente naturale e avvicinato sempre di più animali selvatici, esseri umani e virus. Anche il riscaldamento globale – sulla cui origine antropica si è espresso recentemente il report sul clima dell’IPCC (Fig.2) – è causa della migrazione di piante e animali dal loro luogo di origine.
Questo, insieme alla nostra tendenza a vivere in un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, favorisce la comparsa e l’adattamento di nuovi patogeni.Quando il patogeno infetta un nuovo ospite, infatti, ha già acquisito nel proprio materiale genetico una o più mutazioni che gli permettono di adattarsi alla nuova specie. Ma sono le attività antropiche, spesso, a favorire questo “incontro”.
Un cambio di prospettiva
Gli scienziati invocano dunque un cambio di prospettiva. Spesso nella salute pubblica le persone operano con una modalità di “risposta alla crisi”, ossia impiegano più risorse per risolvere un’emergenza piuttosto che prevenirla. Questo vale anche per il settore agroalimentare, dove i costi per rispondere alla crisi vengono traslati sui consumatori, che subiscono l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità.
La soluzione, secondo gli autori, è quella di investire nella prevenzione. Una ricerca pubblicata su Science ha stimato che la risposta alla pandemia COVID-19 ha avuto un costo 500 volte maggiore rispetto a quello delle misure preventive che ne avrebbero impedito la nascita e diffusione. Le nuove malattie infettive riescono a emergere perché i patogeni hanno l’opportunità di sfruttare capacità genetiche acquisite nel corso del tempo. Il compito dei ricercatori è quello di “trovarli prima che loro trovino noi”. Possono predire dove questi “incontri” sono più probabili e insieme ai politici e ai governi giocare d’anticipo per impedirli o mitigarne le conseguenze.
Le strategie per la prevenzione
Non esiste una vera e propria ricetta per prevenire le prossime pandemie, ma per mettersi sulla buona strada è essenziale:
- riforestare (o almeno ridurre la deforestazione del 50%)
- eliminare il commercio di animali selvatici
- proteggere le aree del pianeta con maggiore biodiversità
- investire sul monitoraggio genetico dei virus in natura
- Educare alla consapevolezza e all’igiene
- Rinforzare programmi nazionali e internazionali
Tutto questo, ovviamente, ha un costo. Ma, ribadiscono i ricercatori nella conclusione del lavoro, la stima dei costi di questo interminabile ciclo di emergenze e risposte è di molto superiore e, nel lungo termine, insostenibile. Soprattutto se la posto in gioco è l’accesso a un genere di prima necessità come il cibo.
Fonti
Brooks, D.R. et al. Emerging infectious disease: An underappreciated area of strategic concern for food security, Transboundary and Emerging Diseases (2021). doi: 10.1111/tbed.14009
Mardones, F.O., et al. The COVID-19 Pandemic and Global Food Security. Front Vet Sci (2020). doi: 10.3389/fvets.2020.578508
Dobson, A.P., et al. Ecology and economics for pandemic prevention. Science (2020). doi: 10.1126/science.abc3189