Insufficienza respiratoria da Covid19: Intubare o non intubare?

Insufficienza respiratoria

Intubare un paziente è una decisione complessa e prende in considerazione la gravità di una malattia, le patologie concomitanti, la fragilità del paziente e le implicazioni sulla sua sopravvivenza. In Medicina con il termine di insufficienza si definisce la condizione in cui un organo non riesce più a svolgere le proprie funzioni.

Si parla di insufficienza respiratoria quando il polmone non riesce più a mantenere gli scambi respiratori, vale a dire mantenere l’ossigenazione del sangue e/o eliminare l’anidride carbonica. L’insufficienza respiratoria può dipendere da molti fattori, a volte singoli, a volte concomitanti. Per risolvere il quadro clinico bisogna individuare e trattare la causa sottostante e nel frattempo sostenere la respirazione del paziente, sulla base della severità dell’insufficienza, o con la supplementazione di ossigeno o con la ventilazione meccanica.

Quest’ultima si definisce invasiva quando è richiesta la presenza di un tubo (oro o naso-tracheale) collegato ad un ventilatore. La ventilazione quindi non è una vera e propria cura. È un supporto, che in determinate condizioni potrebbe diventare anche una terapia. Certe patologie come polmoniti, peritoniti, pancreatiti, traumi toracici o altre condizioni che scatenano una infiammazione incontrollata (burst citochinico) possono causare una forma di insufficienza respiratoria acuta definita come ARDS (Sindrome da Distress Respiratorio Acuta).

Sindrome da Distress Respiratorio Acuta (ARDS)

L’ARDS fu per la prima volta caratterizzata nel 1967 ed è una sindrome caratterizzata dai seguenti criteri:

  • esordio entro 1 settimana dai sintomi;
  • presenza di opacità polmonari alla radiografia/tac (non attribuibili ad altre cause);
  • presenza di edema non solo di origine cardiaca o sovraccarico idrico;
  • compromissione dell’ossigenazione.

L’ARDS consiste in una grave insufficienza respiratoria per la quale bisogna dare un supporto ventilatorio al paziente. Se i trattamenti non invasivi con mascherina di ossigeno, gli alti flussi, il casco CPAP o la ventilazione non invasiva sono risultati insufficienti a risolvere la compromissione dell’ossigenazione, bisogna procedere con la ventilazione invasiva e quindi intubare.

Se si perde tempo e si continua con i trattamenti non invasivi, la sopravvivenza del paziente peggiora.Per tutte le società scientifiche di area critica, nel momento in cui le metodiche di ventilazione non invasiva falliscono, bisogna passare alla ventilazione meccanica mediante il tubo endotracheale. I pazienti ricoverati in rianimazione per ARDS con gravi alterazioni dell’ossigenazione sono intubati e collegati ad un ventilatore che eroga degli atti respiratori al minuto che tengono conto di vari parametri, impostati dal rianimatore che sono:

  • Frequenza respiratoria: atti respiratori al minuto;
  • Volume corrente: che dipende dalle caratteristiche del paziente e dal suo peso ideale;
  • Pressione inspiratoria: quanta pressione il ventilatore deve erogare;
  • Quanto tempo deve durare ogni atto respiratorio;
  • Frazione di Ossigeno: quanta % di ossigeno somministrare.

Nella ventilazione invasiva in generale è importante non superare certi volumi correnti o pressioni inspiratorie. Questi, da un lato possono provocare dei veri e propri traumi (barotraumi), ma possono anche aumentare lo stress sulle pareti bronchiali e quindi incrementare lo stato infiammatorio determinando la VILI (Ventilatory Induced Lung Injury) .Bisogna impostare anche un parametro molto importante, PEEP (Positive positive end expiratory pressure, Pressione positiva di fine espirazione).

La pressione che il ventilatore deve mantenere nel polmone a fine di ogni atto respiratorio per “tenerlo aperto”. Questa pressione serve a mantenere il polmone aperto (reclutato) perché la sua struttura (parenchima polmonare) nell’ARDS non è normale, ma è alterata dalla presenza di edema infiammatorio e gli alveoli tendono a collassare. L’edema, causato dall’alterazione dell’endotelio dei vasi sanguigni che risultano più permeabili a causa dell’infiammazione, il c.d. burst citochinico, va ad impegnare l’interstizio polmonare (l’interstizio è lo spazio tra le cellule di un tessuto).

Nei pazienti più anziani a causa di patologie cardiache preesistenti, come lo scompenso cardiaco, si possono osservare delle alterazioni emodinamiche che possono interferire con gli scambi gassosi a livello alveolo-capillare.In questi casi la gestione dell’emodinamica, dei fluidi e della ventilazione sono di fondamentale importanza per garantire dei sufficienti scambi respiratori. Il rapporto tra la zona ventilata del polmone con ARDS rispetto a quella perfusa dai vasi risulta alterato e la ventilazione in questa situazione risulta “più dura”. Per evitare questo nell’ARDS bisogna impostare i parametri respiratori “in modo protettivo” e monitorare gli scambi gassosi e l’emodinamica del paziente.

Insufficienza respiratoria e Sindrome da Distress Respiratorio Acuta (ARDS)
Figura 1 – Insufficienza respiratoria e Sindrome da Distress Respiratorio Acuta (ARDS)

La pronazione del paziente

In caso di mancato recupero e persistenza di scambi respiratori scadenti bisogna pronare il paziente. La pronazione aumenta l’ossigenazione migliorando il rapporto ventilazione/perfusione evitando la sovradistensione delle aree ventilate male ed esposte alla VILI. Nei casi peggiori di mancato miglioramento o ulteriore peggioramento dell’insufficienza respiratoria si può ricorrere a tecniche extracorporee di ossigenazione (ECMO).

Questa parte introduttiva è necessaria per comprendere la complessità di un paziente con insufficienza respiratoria. Non si ha la pretesa di aver dato una spiegazione completa, questo argomento necessita di ulteriori letture ed approfondimenti.

E nei pazienti con Covid19?

Nei pazienti con ARDS daCovid19 si è assistito alle stesse alterazioni definite dai criteri di Berlino 2012 per l’ARDS “Classico” che ci hanno portato a procedere a intubare quei pazienti in cui l’alterazione della ossigenazione era severa e che mostravano segni di affaticamento respiratorio, nonostante i trattamenti non invasivi.

Questi pazienti nella prima ondata della pandemia arrivavano alla prima osservazione in condizioni già severe a causa di un mancato trattamento farmacologico adeguato, a tutt’oggi non ancora definito, ed hanno necessitato precocemente dell’intubazione. La precocità della procedura però non sarebbe da intendere come una scelta di prima linea dovuta a impressioni personali o giudizi affrettati ma sembrerebbe dovuta alle condizioni cliniche già severe di una importante fetta di pazienti che giungevano negli ospedali o peggioravano velocemente nei reparti di degenza.

Qual è il corretto timing dell’intubazione?

Questa situazione ha portato ad aprire un dibattito sul momento più opportuno per intubare il paziente affetto da covid19. Il corretto timing dell’intubazione è un tema attuale di discussione e definirlo potrebbe essere utile nell’ottica di non “sprecare ventilatori o posti letto in terapia intensiva in una fase di emergenza pandemica”. I lavori pubblicati sono retrospettivi, non tengono conto di eventuali bias di confondimento e presentano delle grosse limitazioni dovuti alla mancanza di dati, raccolti in un periodo di emergenza, un campione analizzato eterogeneo o non sufficiente come numero di pazienti.

Il dibattito è ancora aperto e probabilmente lo sarà per sempre. Definire il giusto momento in cui bisogna procedere alla intubazione potrebbe portare a risultati contrastanti: l’intervento è necessario quando il paziente comincia a respirare male, quando è affaticato ed aumenta la sua frequenza respiratoria con degli atti inefficaci per ottenere dei buoni volumi.

Attendere ulteriormente e continuare con strategie ventilatorie non invasive inefficaci sarebbe deleterio per la sua sopravvivenza. Insistere con la ventilazione non invasiva in questa condizione di affaticamento respiratorio, creerebbe a sua volta dei danni polmonari in un meccanismo conosciuto come P-SILI (patient self-inflicted lung injury), già nota nell’ARDS. Questa indurrebbe una ulteriore infiammazione del polmone che si aggiunge a quella causata dal virus.

È dimostrato da forti evidenze scientifiche che la ventilazione spontanea in ventilazione non invasiva ha degli effetti dannosi nei casi più gravi di ARDS ed insistere con il trattamento non invasivo non porterebbe sicuramente ad un miglioramento della sopravvivenza ma costringerebbe il paziente ad una inutile sofferenza respiratoria. Dimostrarsi attendisti nella fase severa del Covid19 porterebbe all’opposto di quello che si ipotizza, vale a dire uno spreco di risorse, di costi e di degenza nei reparti di terapia intensiva: il paziente che viene ricoverato in ritardo in terapia intensiva infatti ha bisogno di supporto ventilatorio avanzato, tempi di ospedalizzazione più lunghi ed una sopravvivenza più scarsa.

Il punto cruciale non dovrebbe focalizzarsi, a mio parere, sull’utilizzo o meno dei presidi, bensì sullo spreco di tempo dovuto ad un limitato monitoraggio dei pazienti per una carenza del personale sanitario già oberato di un carico di lavoro eccessivo, che porta al ritardo dell’atto medico adeguato e tempestivo. La sproporzione tra personale sanitario e carico di lavoro, dovuto all’impennata dei ricoveri nella fase di emergenza e anche dalla presenza di pazienti più difficili da curare per le loro comorbidità, è un problema da anni denunciato e supportato anche da evidenze scientifiche.

Quello che si sta facendo adesso ed ancora una volta è di adattare il paziente ad una sanità pubblica (inefficiente) e non viceversa. Lo vediamo con i dati degli ultimi giorni in cui si sono registrati un numero importante di decessi giornalieri. Decessi evitabili? Non potremmo mai dirlo. Ma sicuramente l’assistenza e le cure per questi pazienti affetti da Covid19, che richiedono un notevole sforzo e concentrazione, al momento non è sufficiente.

La prima ondata dello scorso marzo-aprile di covid19 può essere paragonata alla metafora del “cigno nero”, ossia quell’evento eccezionale ed inaspettato (o quasi per il coronavirus) che ha sconvolto le nostre vite cogliendoci impreparati. La prima ondata è stata per noi un evento “unexplained” e lo ricordiamo ancora per la pressione negli ospedali e le conseguenze nella società.

La seconda ondata invece era altamente prevedibile ed attesa. È inammissibile essersi fatti trovare impreparati in una emergenza non ancora conclusa. Invece è successo ancora e a pagarne le conseguenze sono i malati in primis, con o senza covid. Un dibattito aperto sul timing di intubazione senza tenere conto delle carenze di organico non potrà portare ad un vantaggio per il paziente.

Conclusioni

Discutiamo perché veramente ci crediamo o per distrarre l’attenzione su queste risorse sanitarie inadeguate? Non si può discutere nemmeno sull’eventualità di intubare o meno un paziente. Non esistono intubazioni sbagliate “da indicare una per una”, non esistono “medici strumenti di morte” come è stato dichiarato in un discorso delirante da un medico legale, tale Pasquale Mario Bacco, alla Camera dei Deputati e poi riportato ad alta voce da volti noti dei media e della politica, come l’onorevole Prof. Sgarbi. Si può discutere se iniziare precocemente un trattamento ventilatorio non invasivo, e su questo ci sono già dei trial registrati ma definire il campo di azione di una manovra salva vita per risparmiare risorse e costi è un atteggiamento vile che distoglie l’attenzione sul reale fulcro del problema: le 4T che ora diventano, secondo il nostro parere, 5T = Testing, Tracciamento, Trattamento, Tempestività e TROVARE risorse umane.

Post di Filippo Testa, Medico Chirurgo, specialista in Anestesia e Rianimazione. Si ringrazia la pagina Pop Medicine per la gentile concessione dell’articolo “Insufficienza respiratoria da Covid19: Intubare o non intubare?

Note bibliografiche:

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Francesco Centorrino

Sono Francesco Centorrino e scrivo per Microbiologia Italia. Mi sono laureato a Messina in Biologia con il massimo dei voti ed attualmente lavoro come microbiologo in un laboratorio scientifico. Amo scrivere articoli inerenti alla salute, medicina, scienza, nutrizione e tanto altro.

1 commento su “Insufficienza respiratoria da Covid19: Intubare o non intubare?”

  1. Salve dottore,
    mio padre è ricoverato da 20 giorni all’ospedale per una polmonite dovuta al COVID. Fino ad ora ha avuto solo il casco e adesso è sottoposto alla pratica della pronazione. Lei ritiene che debba essere praticata l’intubazione?
    Grazie

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