Premessa
La placenta è un organo fissato al rivestimento dell’utero che nutre il feto in via di sviluppo attraverso il cordone ombelicale, fornendogli sostanze nutritive e ossigeno e permettendo anche l’eliminazione degli ormoni residui e delle secrezioni fetali.
Fino al 2012 si pensava che la placenta fosse sterile. Alcuni studi recenti suggeriscono che la placenta sia invece colonizzata da batteri cioè che esista un vero e proprio microbiota della placenta.
Sebbene i microbiota di varie sedi anatomiche del corpo siano stati caratterizzati recentemente, il microbioma della placenta rimane ancora oggi un vero enigma.
I ricercatori hanno capito che quando nasce un bambino, questo possiede una comunità microbica nell’intestino la cui componente batterica non corrisponde a quella della vagina, ma ad un’altra fonte, che è stata scoperta essere la placenta, a riprova del fatto che nessuna parte del corpo umano è sterile e che i microbiota influenzano la nostra vita, ancora prima che veniamo alla luce.
Cosa modelli queste prime comunità microbiche e come il neonato venga esposto e colonizzato dal suo microbiota per la prima volta, rimane ancora oggi poco chiaro. Nella prima settimana di vita, il microbioma intestinale neonatale a termine è in gran parte colonizzato dai phyla Actinobacteria (incluso Bifidobacterium), Proteobacteria, Bacteroides e, in misura minore, Firmicutes (compreso il Lactobacillus spp., che domina la flora vaginale).
Al contrario, i neonati che pesano meno di 1200 g sono dominati sia dai phyla Firmicutes che da quello dei Tenericutes, con una predominanza molto minore di Actinobacteria. Queste osservazioni sollevano l’ipotesi che il bambino possa essere colonizzato per la prima volta in utero dalla placenta, e che questa colonizzazione possa variare in base alla durata della gestazione.
Studi effettuati a sostegno di un microbiota placentare
Il dogma della sterilità in utero postula che il feto si sviluppi in un ambiente privo di batteri al momento della nascita. Questo dogma è stato messo in discussione da diverse pubblicazioni che suggeriscono la presenza di batteri nell’ambiente fetale, compresa la placenta.
Di converso, nel contesto del dibattito sull’esistenza di un “microbiota placentare”, vi è uno studio fondamentale che dopo attenta valutazione delle diverse metodiche di rimozione della placenta, di diverse aree campionate e di metodi di analisi differenti, non consente di concludere che vi sia l’esistenza di un microbiota specifico e funzionale residente della placenta.
Nel 2014, la ricercatrice Kjersti Aagaard ed altri colleghi hanno pubblicato uno studio sul microbiota placentare scoprendo l’esistenza di una piccola comunità microbica associata a tale struttura anatomica. Un dato interessante emerso da questo studio è stato che il microbiota placentare fosse strettamente correlato con quello del cavo orale (lingua, tonsille, saliva e, in misura minore, placca sopra-gengivale, placca sotto-gengivale e gola) anziché con quello della vagina, della cute, delle narici, dell’intestino o di altre parti del corpo.
Le specie Neisseria, che è noto essere un genere costituente fondamentale del microbiota orale, sono risultate abbondanti nella placenta. I ricercatori suggerirono che i microrganismi possano traslocare dalla bocca della madre verso la placenta attraverso la circolazione sanguigna.
Alcuni di questi microrganismi orali, come Fusobacterium nucleatum (un batterio anaerobio Gram-negativo), possono facilitare la trasmissione ematogena durante la formazione placentare come conseguenza della loro capacità di legarsi all’endotelio vascolare e alterarne la permeabilità, funzionando così come un “attivatore” per altri comuni commensali, come Escherichia coli. Porphyromonas gingivalis è un’altra specie anaerobica associata comunemente a parodontite che è stata rilevata nel microbioma vaginale ed in quello placentare in associazione ad esiti avversi in gravidanza.
Tali dati capovolgono la precedente ipotesi secondo la quale i microrganismi nella placenta provengano dall’ambiente della vagina. La colonizzazione placentare con patogeni parodontali rappresenta quindi, potenzialmente, l’anello mancante tra parodontite ed esiti avversi della gravidanza.
I ricercatori hanno trovato le differenze in composizione placentare nel microbiota fra le nascite premature (intorno 34 – 37 settimane) e le nascite a termine complete. Secondo alcuni studi il meccanismo consisterebbe nella traslocazione batterica, nell’attivazione di sostanze come i prostanoidi, nelle contrazioni uterine e, infine, nel parto pretermine.
Nella placenta delle madri con parto prematuro, si riscontra un’abbondanza del genere Burkholderia, un appartenente ai Proteobacteria, mentre i batteri del genere Paenibacillus erano prevalenti nelle placente di madri che avevano partorito al termine del periodo fisiologico.
Gli autori sospettano che una determinata combinazione di batteri nella placenta possa essere un fattore con un ruolo importante nelle nascite premature e che la malattia periodontale in donne gravide possa essere associata ad una aumentata probabilità di nascite premature. Tale ipotesi è intrigante, poiché esiste una ben nota correlazione tra malattie gengivali e parto pretermine e pone anche l’accento sull’importanza dell’igiene orale in gravidanza come pratica preventiva da parte delle gestanti.
Studi che smentiscono l’esistenza di un microbiota placentare
I dati ottenuti dal team di ricerca di Aagaard sono stati però ribaltati da uno studio condotto successivamente, nel 2019, da un gruppo di ricerca dell’Università di Cambridge. Mammiferi germ-free possono essere fatti nascere in isolatori sterili, e questo sosterrebbe l’ipotesi che l’utero sia effettivamente sterile.
Inoltre, ricerche precedenti, svolte dallo stesso gruppo presso la School of Medicine della University of Pennsylvania, non hanno rilevato alcuna differenza, in termini di abbondanza microbica, tra controlli negativi di fondo e campioni di placenta. Altri studi ancora non sono riusciti a rilevare prove per una presenza costante di batteri utilizzando colture o tecniche molecolari.
Confrontare studi contrastanti sul “microbioma placentare” è complicato dall’uso di protocolli diversi e incoerenti; partendo da questo presupposto, gli studiosi hanno effettuato una valutazione della sterilità dell’ambiente in utero, utilizzando diversi metodi controllati, per spiegare le contraddizioni presenti in letteratura.
Sono state reclutate donne incinte sane in tre reparti di maternità la cui placenta è stata raccolta dopo nascite avvenute con taglio cesareo o dopo parto vaginale. Per tale studio sono state campionate membrane fetali, cordone ombelicale e villi coriali. I ricercatori hanno utilizzato il qPCR del gene rRNA 16S per determinare i livelli assoluti di DNA batterico nei campioni di placenta, nei campioni vaginali e orali (controlli positivi) e nei controlli negativi.
I campioni vaginali e orali contenevano concentrazioni significativamente più elevate di DNA batterico rispetto ai campioni di placenta, mentre i due controlli negativi che contenevano la più bassa concentrazione di DNA batterico, non erano significativamente diversi dai campioni di placenta.
In tale studio è stato dimostrato che l’isolamento di quantità significative di batteri vitali o DNA batterico era possibile solo al di fuori della placenta (membrane fetali e cordone ombelicale) evidenziando l’importanza dei metodi di campionamento nello studio dell’ambiente in utero. Le comunità batteriche descritte dall’analisi metagenomica sono risultate simili nei villi corionici e nei controlli negativi e dipendevano dal database scelto per l’analisi.
I risultati conclusivi dello studio suggeriscono che la placenta umana, ottenuta da parti a termine o pretermine, non è colonizzata da un microbiota specifico e quantitativamente significativo. I campioni ottenuti da placenta e i controlli negativi contenevano alte percentuali di batteri solitamente associati a contaminanti di reagenti, come Ralstonia e Pseudomonas.
Diversi batteri trovati nei campioni vaginali, tra cui Ureaplasma e Lactobacillus, sono stati rilevati in alcuni campioni di placenta. Ulteriori analisi hanno dimostrato che questi campioni derivavano da parti vaginali e non da parti cesarei.
Complessivamente, i ricercatori non hanno rilevato differenze significative tra i campioni di placenta, indipendentemente dal tipo di parto.
Alteromonas mediterranea e Methanosarcina mazei, altri due batteri trovati ad alte concentrazioni nei campioni di placenta, erano meno abbondanti nei controlli negativi. Tuttavia, questi batteri sembrano essere associati alla procedura di preparazione, piuttosto che naturalmente presenti nei campioni.
Come vari studi hanno dimostrato, il problema della contaminazione dei kit con cui viene estratto e preparato il DNA è tutt’altro che un’eccezione, e nonostante le precauzioni è molto difficile evitarlo. La maggior parte di questi strumenti presenta in partenza tracce di DNA batterico, e lo stesso si può dire per le macchine con cui viene effettuato il sequenziamento.
I ricercatori inoltre non hanno rilevato differenze nei campioni di placenta ottenuti da parti vaginali e da parti cesarei, tra il lato fetale e il lato materno della placenta e tra le placente normali e quelle di casi con infezione di amnios e corion.
In sintesi, i campioni di placenta sono indistinguibili dai controlli negativi e tutti i batteri rilevati sembrano essere contaminanti provenienti dall’ambiente. L’unico microrganismo individuato in una minoranza dei campioni di placenta, il 5%, è stato il batterio Streptococcus agalactiae, che può passare dalla madre al bambino durante il parto, ed è ritenuto possibile causa di gravi infezioni neonatali.
Discussione dei dati
In realtà intorno al dibattito “placenta sterile o placenta non sterile” si gioca anche la credibilità di un intero campo di studi, letteralmente esploso negli anni recenti, cioè quello sul microbiota umano, ovvero sull’influenza che le comunità batteriche che popolano il nostro corpo esercitano sulla salute.
Nonostante i risultati ottenuti, un numero considerevole di ricercatori sono ancora scettici, come la stessa Aagaard. Questo è probabile sia anche dovuto al fatto che non si è a tutt’oggi data risposta ad un’altra domanda e cioè quando si sviluppa il microbiota del neonato. Ad oggi, l’ipotesi più accreditata è che il feto acquisisca il microbiota nel passaggio lungo il canale della nascita, durante il parto.
Alla luce degli studi più recenti, invece, risulta smentita la presenza di un microbiota placentare e confermata l’asetticità della placenta rafforzando l’idea che il feto viva in un ambiente sterile che consente gli scambi metabolici con il sangue materno e ritornando all’ipotesi secondo la quale il primo contatto con i batteri avvenga durante il parto, proprio con il passaggio nel canale di nascita. Anche questa affermazione merita approfondimenti ed ulteriori spiegazioni scientifiche, ma rimane la conseguenza logica alla luce dello studio di Cambridge.
Conclusioni
Se si esclude il ruolo della placenta, tesi sulla quale ancora oggi alcuni ricercatori non sono convinti, resta naturalmente da spiegare come e quando inizi a svilupparsi il microbiota. Anche se l’ipotesi principale è che il primo contatto con i batteri colonizzatori si verifichi durante il parto, sicuramente ci sono ancora molte domande senza risposta.
Secondo una buona fetta di esperti, infatti, il problema della contaminazione di kit e apparecchiature di analisi è assai diffuso, e potrebbe in qualche modo limitare la portata e la rilevanza di molte scoperte (e dei relativi annunci roboanti) sul microbiota umano. In parole povere, almeno una parte degli studi che presentano scoperte di batteri in posti insoliti, suggerendo ipotesi varie sulla loro funzione, potrebbero essere falsati da questo genere di problema.
La diatriba sull’essere o meno la placenta un ambiente sterile, in realtà, richiama l’attenzione su un altro tema molto discusso e controverso, riguardante la credibilità degli studi sul microbiota umano volti a spiegare l’influenza sulla salute delle colonie di batteri presenti nel nostro corpo. Al di là di ogni fine recondito legato ai dibattiti scientifici, consola la dimostrazione dello studio inglese sulla natura asettica della placenta che, così, si conferma nella sua utilità per la crescita del feto nell’utero materno.
Fonti
- Collado M.C., Rautava S., Aakko J., Isolauri E., Salminen S. “Human gut colonisation may be initiated in utero by distinct microbial communities in the placenta and amniotic fluid” Scientific Reports 2016, 6:23129.
- de Goffau M.C., Lager S., Sovio U., Gaccioli F., Cook E., Peacock1 S.J., Parkhill J., Charnock-Jones D.S., Smith G.C.S. “Human placenta has no microbiome but can harbour potential pathogens”. Nature 2019; 572 (7769): 329–334.
- Fischer L.A., Demerath E. et al. “Placental colonization with periodontal pathogens: the potential missing link” Am J Obstet Gynecol. 2019; 221(5): 383–392.
- Gschwind R., Fournier T., Kennedy S., Tsatsaris V., Cordier A-G, Barbut F. et al. “Evidence for contamination as the origin for bacteria found in human placenta rather than a microbiota”. PLoS ONE 2020; 15(8): e0237232.
Giuseppe Chindemi