La fascite necrotizzante dipende dall’interazione di più batteri

La fascite necrotizzante

La fascite necrotizzante (Figura 1) è un’infezione dei tessuti molli dell’organismo causata dai cosiddetti batteri mangia-carne”. Al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare, si tratta di batteri comunissimi, tra cui spiccano quelli appartenenti al genere Streptococcus, che, in condizioni particolari, possono dare questa patologia. Quello che succede è che questi batteri, tramite il rilascio di potenti tossine, promuovono la necrosi del tessuto sottocutaneo, che di solito comprende la fascia (da cui il nome di fascite).

Fascite necrotizzante e batteri responsabili
Figura 1 – Schema relativo ai tessuti interessati dalla fascite necrotizzante e elenco dei batteri responsabili di essa

Uno dei sintomi principali è il dolore acuto, ma sono presenti anche degli altri segni caratteristici che interessano l’area infetta (rossore, calore, tumefazione). La prognosi può divenire infausta nel caso in cui non vi siano una diagnosi e un trattamento precoce.

Metodiche per l’individuazione delle infezioni

La fascite necrotizzante è, spesso, una malattia causata da un insieme di più batteri (aerobi e anaerobi) che cooperano per permettere la propagazione dell’infezione. Per questo motivo, risulta essere necessario utilizzare nuove metodiche di diagnosi. Infatti, mentre le metodiche standard riescono a rilevare infezioni monomicrobiche, è solo tramite analisi metagenomiche che diventa possibile riconoscere le infezioni polimicrobiche.

Analisi metagenomica e fascite necrotizzante

Un esempio dell’applicazione dell’analisi metagenomica arriva dall’America: si tratta di uno studio condotto dai ricercatori della University of Maryland e della Univeristy of Texas Medical Branch. Questi hanno analizzato un paziente infettato da Aeromonas hydorphila (Figura 2), uno dei batteri mangia-carne che causa la fascite necrotizzante.

Aeromonas hydrophila: uno dei batteri responsabili della fascite necrotizzante
Figura 2 – Aeromonas hydrophila, uno dei batteri responsabili della fascite necrotizzante

Mentre una semplice analisi standard avrebbe solamente individuato la presenza del batterio, l’analisi metagenomica, ha evidenziato come effettivamente il paziente fosse stato infettato da quattro ceppi di A. hydrophyla, tre dei quali clonali (NF2, NF3 e NF4) e uno filogeneticamente distinto (NF1).

Fascite necrotizzante: un’infezione polimicrobica

Già studi precedenti, condotti dagli stessi ricercatori, su due ceppi di batteri geneticamente distinti in grado di causare la fascite necrotizzante (NF1 e NF2, presenti anche nel paziente oggetto di studio) avevano dimostrato come nessuno dei due ceppi fosse in grado, da solo, di dare infezione. Al contrario, se i ceppi erano presenti contemporaneamente, l’infezione poteva anche divenire mortale.

Questo è dovuto al fatto che i due ceppi producono molecole differenti, che permettono loro di svolgere ruoli differenti nell’infezione.

Analisi dei due ceppi

Il ceppo NF2 (così come i ceppi clonali di questo studio) produce l’esotossina A (ExoA), che permette ai batteri di rompere il tessuto muscolare per migrare nella circolazione ematica e, da qui, raggiungere altri organi.

Il ceppo NF1 produce l’effettore TseC del sistema di secrezione di tipo 6 (T6SS). Questi sono entrambi implicati nell’uccisione diretta, sia in vivo che in vitro, di NF2 e nel rapporto tra fagocitosi batterica e sopravvivenza intracellulare del batterio.

Perché sono entrambi importanti nella fascite necrotizzante?

Nelle infezioni da singolo ceppo accade quanto sotto:

infezione da NF1: il batterio rimane localizzato nel sito di infezione, non si diffonde nell’organismo per mezzo del sangue e viene eliminato dal sistema immunitario;

infezione da NF2: produce ExoA che gli permette di rompere il tessuto muscolare e diffondere nell’organismo.

Al contrario, quando entrambi i ceppi infettano l’organismo abbiamo infezioni multistrato. NF2 rompe il tessuto muscolare, grazie alla tossina ExoA. Nel momento in cui questo avviene entra in gioco NF1, che sfrutta il meccanismo di NF2 per migrare nel flusso sanguigno e da qui diffondere nell’organismo. Allo stesso tempo, però, NF1 produce TseC, che impedisce la diffusione di NF2 e, addirittura, lo uccide.

Utilizzo futuro dell’analisi metagenomica

L’analisi metagenomica, utilizzata in questo studio per individuare l’infezione polimicrobica, fa comprendere come spesso, erroneamente, si tenda a considerare le infezioni come frutto di un singolo agente patogeno. In realtà, in molti casi, come quello descritto, si tratta di infezioni polimicrobiche (stessa specie, ma ceppi differenti o specie differenti).

Da ciò deriva che l’analisi metagenomica potrebbe divenire sempre più importante in futuro. Potrebbe, infatti, aiutarci ad individuare altri tipi di infezioni polimicrobiche e non solo anche a curarle nel giusto modo, attraverso, ad esempio, la somministrazione di una miscela di antibiotici o farmaci terapeutici. Questo perché, somministrando un singolo antibiotico si andrebbe a contrastare solo un determinato tipo di patogeno lasciando l’altro inalterato. Probabilmente è questa la causa di infezioni secondarie e/o infezioni croniche.

In più, l’analisi metagenomica ci aiuta anche a comprendere i differenti ruoli svolti da ogni specie microbica nell’infezione, e questo risulta essere di grande aiuto nella scelta e nell’applicazione dei vari trattamenti.

Emanuela Pasculli

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Francesco Centorrino

Sono Francesco Centorrino e scrivo per Microbiologia Italia. Mi sono laureato a Messina in Biologia con il massimo dei voti ed attualmente lavoro come microbiologo in un laboratorio scientifico. Amo scrivere articoli inerenti alla salute, medicina, scienza, nutrizione e tanto altro.

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