Caratteristiche
Il genere Archaeoglobus appartiene al dominio degli Archaea e al phylum degli Euryarchaeota. Allo stato attuale tale genere comprende cinque specie validamente pubblicate: A. fulgidus, A. veneficus, A. infectus, A. profundus e A. sulfaticallidus ed una specie candidata, non ancora completamente descritta, chiamata “A. lithotrophicus“.
Sono microrganismi chemolitoautotrofici o chemioorganotrofici, i quali utilizzano CO2 (ad eccezione di A. profundus e A. infectus) o composti organici come fonti di carbonio e svolgono un ruolo essenziale nel ciclo biogeochimico dello zolfo. Essi, infatti, utilizzano solfato, solfito o tiosolfato come accettori finali di elettroni, con formazione di idrogeno solforato, e l’idrogeno come donatore di elettroni.
Filogenesi
DOMINIO | Archaea |
PHYLUM | Euryarchaeota |
CLASSE | Archaeoglobi |
ORDINE | Archaeoglobales |
FAMIGLIA | Archaeoglobaceae |
GENERE | Archaeoglobus |
Habitat
I rappresentanti del genere Archaeoglobus sono microrganismi ipertermofili, crescono infatti a temperature estremamente elevate comprese tra i 60°C e i 95°C, mostrando una crescita ottimale a 83°C e in condizioni di anaerobiosi.
Sono stati isolati dalle bocche idrotermali presenti sull’isola di Vulcano, in Italia, ma si trovano più frequentemente nei giacimenti di petrolio nel Mare del Nord, in pozzi petroliferi terrestri e nelle sorgenti termali nel Parco nazionale di Yellowstone (figura 1) .
Se sottoposti a condizioni ambientali stressanti, gli Archaeoglobus, sono in grado di produrre biofilm, i quali possono essere impiegati per scopi industriali o di ricerca, ed in particolare nella disintossicazione di campioni contaminati da metalli o per ottenere metalli in una forma economicamente recuperabile.
La produzione del biofilm può essere indotta da valori estremi non fisiologici di pH e temperatura, da alte concentrazioni di metalli e dall’aggiunta di antibiotici, xenobiotici o dalla presenza di ossigeno.
Immagini al microscopio
Il nome Archaeoglobus significa letteralmente “antiche sfere”. Se osservate al microscopio, le cellule appaiono di forma coccoide altamente irregolare, disposte singolarmente o in coppia e con un diametro compreso tra 0,4 -1,3μm. Al microscopio a UV, ad una lunghezza d’onda di 420 nm, le cellule mostrano una caratteristica colorazione blu-verde, e ciò indica la presenza del coenzima F420 (un cofattore citoplasmatico fluorescente e non diffusibile).
L’involucro cellulare è costituito da uno strato di natura proteica, noto come strato S (S-layer) o strato paracristallino costituito da unità peptidiche monometriche e con funzione prettamente strutturale. La membrana cellulare è costituita da un doppio strato di lipidi dell’etere fitanilico.
Tutti i membri appartenenti a questo genere, ad eccezione di A. profundus e di A.sulfaticallidus, mostrano una motilità associata alla presenza di flagelli polari e/o peritrichi.
Metodi di identificazione
Gli Archaeoglobus possono essere coltivati in laboratorio, a temperature intono agli 85°C e in condizioni anaerobiche, utilizzando terreni di coltura contenti solfato, solfito o tiosolfato (terreno MGG). Lo zolfo allo stato elementare invece inibisce la crescita. A seconda della specie che si vuole identificare, ai terreni di coltura possono essere aggiunte selettivamente alcune sostanze; ad esempio per identificare A. fulgidus, può essere utilizzato il lattato, oppure per l’identificazione di A. profundus il mezzo di coltura può essere arricchito con H2/CO2 e acetato. Archaeoglobus può essere isolato mediante diluizioni seriali, mediante placcatura su terreni contenenti l’1,5% di agar (solo per A. fulgidus) o lo 0,6% di Gelrite, oppure utilizzando pinzette ottiche.
Le colture di Archaeoglobus possono essere conservate anaerobicamente a 4°C per poche settimane. Per periodi più lunghi (fino a cinque anni) le colture devono essere conservate in azoto liquido (−140°C) dopo l’aggiunta del 5% di dimetilsolfossido (DMSO).
Curiosità
Ricerche attuali hanno dimostrato l’importanza terapeutica di una proteina, nello specifico una ferritina, presente in Archaeoglobus fulgidus. E’ ormai da tempo noto che le proteine possono essere utilizzate nelle terapie enzimatiche sostitutive o possono esercitare attività citotossica nei confronti delle cellule di mammifero.
In questa cornice le ferritine occupano un posto speciale, poiché in virtù della loro struttura sferica cava, vengono utilizzate come nanoparticelle all’interno delle quali vengono incorporati agenti terapeutici, compresi farmaci antitumorali.
A tal proposito, la ferritina di A. fulgidus, denominata AfFt, sta suscitando grande interesse per la sua insolita struttura e per le proprietà di associazione/dissociazione che, a pH fisiologico, sono regolate solo variando la forza ionica. A differenza di tutte le altre ferritine conosciute che si assemblano con simmetria ottaedrica, AfFT mostra una simmetria tetraedrica, unica nella biologia strutturale. Inoltre sulla superficie sono presenti quattro grandi pori triangolari (~45 Å di diametro) che possono favorire il movimento di ioni e molecole più grandi, dall’interno verso l’esterno e viceversa.
Applicazione in vitro della ferritina chimerica
Nonostante ciò è importante considerare che uno dei principali svantaggi del rilascio di proteine mediato da nanoparticelle è rappresentato dalla selettività del bersaglio. Al fine di rendere l’AfFt capace di riconoscere selettivamente le cellule umane, è stata recentemente sviluppata una ferritina chimerica A. fulgidus-umana dotata di selettività nei confronti del recettore TfR1 (recettore 1 della trasferrina umana).
Questa ferritina chimerica rappresenta una struttura ideale per incorporare agenti terapeutici, comprese le proteine bioattive, all’interno della sua cavità. Una volta che la ferritina viene assorbita a livello cellulare, rilascia l’agente terapeutico; ciò si verifica attraverso il processo di associazione/dissociazione della struttura a pH neutro o per diffusione attraverso i grandi pori triangolari presenti sulla superficie.
La prima applicazione di questa ferritina chimerica è stata la somministrazione del citocromo C alle cellule di leucemia linfoide, le quali esprimono elevati livelli di TfR1. Il complesso ferritina-citocromo C è stato efficacemente interiorizzato dalle cellule tumorali e, una volta rilasciato, cyt C è stato in grado di indurne l’apoptosi. Nonostante i promettenti risultati, le ricerche sulle ferritine chimeriche sono soltanto agli inizi. Al fine di estendere l’applicazione anche sui sistemi in vivo e per consentirne l’uso in sicurezza nell’uomo, sarà necessario testare la probabile immunogenicità del costrutto chimerico.