La radioattività e il biorisanamento

L’energia nucleare è una fonte utilizzata in molti paesi per produrre energia elettrica. Attualmente, l’unico tipo di tecnologia applicabile per lo sfruttamento di questa fonte è la fissione nucleare in quelli che vengono chiamati reattori termonucleari. Essa fu ottenuta sperimentalmente per la prima volta dall’italiano Enrico Fermi nel 1934. Rappresenta una tecnologia attualmente diffusa a livello mondiale che presenta però, secondo alcuni, dei limiti e secondo altri invece l’unica futura fonte di energia che sia in grado di garantirci ridotte emissione di CO2.
E i microrganismi, vi starete giustamente chiedendo, cosa c’entrano in tutto ciò? Sono in grado di interagire con i rifiuti radioattivi prodotti dai processi di fissione?

L’energia nucleare è sostenibile?

Differenti sono le tecnologie impiegate nella costruzione dei 433 reattori nucleari attivi (ultimi dati risalenti al 2019) in tutto il mondo. Tra questi, 152 sono quelli entrati in funzione più di 30 anni fa, dato che salta all’occhio ai detrattori di questa tecnologia. Dato che però, ha ben poco conto, poiché anche questi vecchi modelli sono sottoposti ad attente revisioni ad opera delle organizzazioni internazionali deputate al controllo del nucleare. La sostenibilità del nucleare è messa in discussione da molti, non sempre però con le giuste motivazioni. Esse rappresentano invece per molti altri un’alternativa allo sfruttamento dei più comuni combustibili fossili, sempre in un’ottica di riduzione delle emissioni di CO2.

radioattività e sostenibilità
Figura 1 – L’energia nucleare è sostenibile? [Fonte: thenounproject.com]


Nel processo, come in ogni processo di estrazione minerale, sia esso radioattivo o meno, vengono utilizzate risorse naturali. In secondo luogo, punto cruciale della questione pro/contro energia nucleare, in molti paesi non sono ancora stati individuati siti definitivi per lo stoccaggio e lo smaltimento dei prodotti di scarto di questa filiera. Momentaneamente molti paesi si affidano a depositi di stoccaggio temporanei, nell’attesa di siti sicuri e definitivi individuati dagli enti predisposti e che sono richiesti obbligatoriamente dall’Unione Europea. I depositi nazionali, dopo attente valutazioni, serviranno per lo stoccaggio di materiale radioattivo (media e bassa attività), mentre si pensa ad un deposito europeo comune per quelli ad alta attività (derivanti dalle centrali).

In Italia l’abbandono di questo tipo di energia fu sancito con la chiusura nel 1990 dell’ultimo reattore e con il referendum abrogativo del 2011 che portò alla chiusura del programma nucleare civile. Proprio in Italia infatti molti si oppongono, senza alcune motivazione scientifica, all’apertura di depositi per i materiali radioattivi provenienti dalle centrali e non solo (prodotti nell’industria medica e nel mondo della ricerca).

Che fine fanno i prodotti radioattivi?

Questa è la domanda che preoccupa chi, a rigor di logica, sia del tutto ignaro dei processi di smaltimento di questi materiali. I prodotti di scarto dell’industria nucleare vengono stoccati e smaltiti in depositi sotterranei, posti a profondità variabili a seconda anche della radioattività dei residui stessi.
Lo stoccaggio è praticato ad oggi in siti ad elevate profondità nella crosta terrestre, proteggendo l’uomo e gli ecosistemi dalle radiazioni provenienti dal processo di decadimento.

Esistono altre metodiche fisico-chimiche che ci permettono di trattare questi rifiuti, e stoccarli in maniera più sicura o comunque con un ridotto livello di attività radioattiva. In ogni caso, secondo le autorità deputate al controllo del nucleare, questi depositi garantirebbero il corretto isolamento dei rifiuti dal mondo esterno, evitando danni. Tornando al concetto di incidenti, essi sono alla base dei 3 eventi (unici nella storia del nucleare) accaduti fino ad oggi nel mondo causati dall’utilizzo di energia nucleare, che siano essi dovuti all’errore umano o a catastrofi naturali.

Reattori e fughe di radioattività

I reattori nucleari possono subire danni per i motivi citati precedentemente, problematica ridotta però al minimo con l’avanzare delle tecnologie. Un caso esempio è quello del reattore nucleare di Chernobyl, avvenuto nel 1986, in conseguenza ad un serie di errori umani.
I reattori però possono anche subire danni da fenomeni indipendenti dall’errore umano, caso ad esempio dello tsunami avvenuto l’11 marzo del 2011 in Giappone, che danneggiò il reattore della centrale di Fukushima (Fig. 2).

La centrale di fukushima
Figura 2 – La centrale di Fukushima. [Fonte: flickr.comIAEA Imagebank]

I potenziali effetti dell’incidente sull’ambiente destarono inizialmente molta preoccupazione, ma ad oggi le radiazioni sembrano essere sotto controllo, secondo i dati a disposizione. I cittadini delle zone antistanti furono costretti ad abbandonare le loro case, per l’incidente avvenuto in concomitanza con lo tsunami, ma furono però risarciti. Danni che furono provocati in larga scala dal fenomeno naturale, e in piccola parte dalla fuga di radioattività, comunque minima. Per precauzione, gli enti predisposti isolarono comunque gran parte della zona, riducendo al minimo eventuali rischi.

I giapponesi e il caso Fukushima

La centrale di Fukushima Dai-ichi era classificata in funzione come la 15° centrale nucleare più grande al mondo. Essa utilizzava una tecnologia denominata BWR (Boiling Water Reactor), ovvero funzionante tramite l’utilizzo di acqua bollente, che risaliva però alla fine degli anni Sessanta. (Fig.3)

reattore BWR
Figura 3 – Struttura di un reattore con tencologia BWR. [Fonte: wikipedia.org]

Successivamente all’incidente, fu utilizzata dell’acqua (da prassi) per raffreddare i reattori andati fuori controllo dopo i danni provocati dallo tsunami. Quest’acqua, attualmente non ancora smaltita, presenta dopo il suo utilizzo nei processi di raffreddamento alti livelli di radioattività essendo contaminata da radionuclidi. Essa però viene trattata secondo precisi processi, che riducono al minimo i livelli di radioattività e portano allo stoccaggio del liquido risultante in serbatoi; questi però sembrano non poter ospitare ulteriori litri di liquido comunque contaminato in tracce da radionuclidi difficilmente rimovibili, come il Trizio. Secondo diversi studiosi di alcune associazioni ambientaliste, la società in carica sembra non stia trattando l’acqua in modo adeguato, ma lasciamo queste teorie speculative ad altri elementi ed in altra sede.

La risposta del governo giapponese

Il governo giapponese entro i prossimi due anni inizierà a riversare le acque contenute nei serbatoi della centrale nucleare nell’Oceano Pacifico, nel rispetto delle norme internazionali dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e dopo aver rimosso molti degli elementi radioattivi che conteneva. Secondo il governo giapponese, però, le soluzioni alternative sarebbero inesistenti o comunque inutili. Torniamo quindi al concetto di biorisanamento: i microrganismi, con il giusto avanzamento della ricerca, potrebbero infatti aiutarci ancora una volta, insegnandoci come sia possibile applicare soluzioni di origine biologica, in grado di ampliare le tecnologie a nostra disposizione per affrontare certe problematiche.

Biorisanamento dei rifiuti radioattivi

Come la maggior parte dei processi di biorisanamento, prevede l’utilizzo di agenti biologici batterici, piante e funghi (che possono essere eventualmente geneticamente modificati).
Le specie coinvolte sono caratterizzate da proprietà in grado in influenzare le proprietà dei radionuclidi, come:

  • Solubilità;
  • Biodisponibilità;
  • Mobilità.

I processi alla base di questo tipo di operazioni di biorisanamento sono portati avanti in situ o in strutture controllate in modo da poter utilizzare più sistemi sinergicamente.
Per ciò che concerne i batteri, essi utilizzano principalmente processi metabolici (Fig.4) per ridurre l’energia delle scorie radioattive o utilizzare in maniera sicura le sostanze provenienti dal decadimento.

Radioattività e metabolismo batterico
Figura 4 – Processo di ossidoriduzione enzimatica dei radionuclidi ad opera dei batteri. [Fonte: wikipedia.org]

In base al tipo di elemento radioattivo, i batteri sono in grado di immobilizzare direttamente o indirettamente i radionuclidi utilizzando anche intermedi dei loro processi metabolici. In particolar modo essi sfruttano il potenziale redox di questi elementi per ridurne la pericolosità.

Possibili metodi di biorisanamento

Sono molti i processi attraverso i quali, almeno teoricamente, i rifiuti radioattivi possono essere bio-smaltiti.
Quelli che riguardano microrganismi batterici sono:

  • Bioassorbimento;
  • Bioaccumulo;
  • Biomineralizzazione.

Tutti questi metodi prevedono che la cellula sia posta a contatto con il materiale radioattivo.

I primi due metodi si basano principalmente sulla capacità di una cellula di assorbire, in concentrazioni superiori anche mille volte quelle ambientali, radionuclidi.
Il terzo metodo, noto anche come bioprecipitazione, è la precipitazione dei radionuclidi attraverso la formazione di bio-minerali (Fig.5) radioattivi che però possono essere riutilizzati senza rilasciare scorie.

L’ultima rappresenta forse la soluzione meno ecologica rispetto le altre, anche se comunque si parlerebbe di minerali con una radioattività naturale paragonabile a quella dei comuni minerali radioattivi.

Bio minerali radioattivi derivati da biorisanamento
Figura 5 – Chernikovite, un biominerale ottenuto da processi di biorisanamento di materiale radioattivo. [Fonte:wikipedia.org]


Esistono molti batteri in grado di produrre agenti sequestranti indiretti o chelanti in grado di ridurre la radioattività di alcuni materiali, ma attualmente non sono ancora state testate soluzioni applicabili a livello industriale.

Candidatus Desulforudis audaxviator


“DESCENDE, AUDAX VIATOR, ET TERRESTRE CENTRUM ATTINGES”

Jules verne – Viaggio al centro della terra

Questa è la frase segreta che il Professor Lindebrock, protagonista del meraviglioso libro di Jules Vernes trova incisa in una roccia nel suo viaggio.
Significa “Discendi, audace viaggiatore, e raggiungi il centro della Terra.

Candidatus Desulforudis audaxviator soluzione alla radioattività
Figura 6 – Una colonia di Candidatus Desulforudis audaxviator scoperta nella miniera d’oro di Mponeng vicino Johannesburg, Sud Africa. [Fonte: wikipedia.org]

Il microrganismo di cui vi parleremo trae il proprio nome infatti da questa frase, in particolar modo audaxviator.
Questo batterio (Fig.6) gram-positivo, unico nel suo genere, presenta questo complesso nome per tre motivi, uno dei quali è appunto l’ispirazione al racconto di J. Verne.
Esso assume l’appellativo di Candidatus poiché è un batterio estremofilo, che attualmente non è possibile coltivare seguendo alcun metodo di coltivazione conosciuto.
Inoltre, fu denominato Desulforudis, perché la sua prima caratteristica osservata fu appunto la capacità di utilizzare solfati e poiché presentava una forma a bastoncello.
Esso è essenzialmente un batterio anaerobico e in grado di vivere anche in mancanza di luce solare.
Fu ritrovato per la prima volta in una miniera d’oro del Sud Africa.

Estremofilo?

Questo batterio è unico nel suo genere poiché fu l’unico batterio ritrovato nell’ecosistema di provenienza. Si presenta quindi come un antico batterio sopravvissuto come tante altre forme microbiche al passare delle ere. Esso si è adattato nel tempo a vivere in ambienti estremi in condizioni molto particolari, vincendo a pieni voti il titolo di estremofilo.

Sopravvive a temperature fino ai 60° e ad un pH di 9.3. Popola normalmente falde acquifere tra i 1,5 e i 3 km sotto il livello della crosta terrestre. È inoltre capace di produrre endospore, incapsulandosi quando le condizioni ambientali raggiungono livelli insopportabili anche per un campione come lui. Attraverso la formazione di una capsula riesce a salvare il DNA dalla degradazione dovuta alla temperatura, a livelli di pH insopportabili e all’assenza di acqua.  Può sopravvivere quindi in mancanza di composti organici, luce e ossigeno.

ambienti estremi, radioattività e batteri estremofili Candidatus Desulforudis audaxviator
Figura 7 – Ambienti estremi sul nostro pianeta. [Fonte: flickr.com]

Unicità genetica

Sembra che questo particolare batterio, sopravvissuto a diverse ere geo biologiche, abbia mantenuto nel tempo una certa coerenza nel proprio processo evolutivo. È riuscito infatti a non perdere quelle caratteristiche che sembrerebbero tipiche di un batterio preistorico. Non parliamo però di forme di vita risalenti all’epoca dei dinosauri, ma ben più antiche. Infatti, paesaggi terrestri ricchi di radiazioni, temperature elevate e condizioni altrettanto estreme, corrispondono esattamente a periodi in cui la Terra era ancora un pianeta non completamente sviluppato, o meglio quando la vita biologica era ancora ai suoi inizi.

Secondo alcuni studi questo batterio ha infatti ereditato tramite trasmissione genetica orizzontale molti elementi genetici da presunte specie di Archea preistoriche. Essendosi sviluppato come batterio isolato dal resto delle forme vitali, rappresenta un esempio più unico che raro. Il suo genoma contiene un inusuale trasposone e molti siti di inserzione. Inoltre, sembra che la sua lunghezza (ben 2157 geni) lo renda ben diverso dal genoma di tanti altri batteri estremofili. Questa caratteristica sembra assuma un ruolo fondamentale nei processi fisiologici che gli valgono il titolo di estremofilo.

E la radioattività?

C. D. audaxviator è in grado trarre energia da solfati e idrogeno prodotti nel decadimento radioattivo dell’uranio ed altri radionuclidi.
Essendo in grado di sopravvivere in mancanza di fonti di composti organici, trae idrocarburi da ciò che lo circonda. L’idrogeno proviene principalmente dai processi di degradazione dei materiali radioattivi che rilasciano acqua contaminata. In particolar modo esso sembra in grado di sfruttare i prodotti di uranio, torio e potassio. Esso sfrutta l’energia delle radiazioni per produrre composti solforici che rappresentano un ulteriore fonte di alimentazione per il loro contenuto energetico molto elevato. È capace di trarre azoto e carbonio da fonti inorganiche, similmente a come fanno gli archea.

Come combattere la radioattività attraverso il metabolismo dei batteri, modello di metabolismo Candidatus Desulforudis audaxviator
Figura 8 – Modello di C. D. audaxviator. Esso rappresenta la vita metabolica attraverso la quale ottiene energia dal decadimento radioattivo dell’uranio inclusa la via metabolica riduttiva del solfato. [Fonte: Altair et al.,2018]


Nei processi di ossidoriduzione metabolici, utilizza al posto dell’ossigeno, il solfato come accettore finale.
La sua elevata adattabilità e questa sua spiccata capacità di sopravvivere in presenza di elementi radioattivi, potrebbero conferirgli un ruolo da protagonista in futuri studi sull’utilizzo di tecniche di biorisanamento in campo nucleare. Attraverso quest’eterogeneità mantenuta nel tempo, questo batterio è riuscito a sopravvivere in un ambiente unico rappresentando quasi una forma di vita extra-terrestre. Infatti, secondo alcuni studi, potrebbe essere in parte un esempio di possibili microrganismi ritrovabili su altri pianeti, e potrebbe in parte essere utilizzato per studi teorici riguardo possibili forme di vita su una stella, la luna di Giove, Europa.

Conclusione

Ancora una volta la natura ci insegna attraverso un andamento apparentemente semplice, ma in realtà molto complesso, come sia possibile adattarsi e non arrecare danno al pianeta. Questo microrganismo è l’esempio lampante di come dobbiamo essere noi, ospiti del pianeta, a adattarci e risolvere ciò che provochiamo. Attualmente, come la maggior parte delle tecniche di biorisanamento in settori che hanno una situazione drammatica, non esiste ancora alcuna applicazione che possa essere utilizzata a livello industriale. Riusciremo ad ovviare tramite soluzioni biologiche al problema che rappresenta l’utilizzo di fonti nucleari e lo smaltimento delle scorie radioattive? Come al solito, quando parliamo di ambiente e danni che l’uomo apporta, preferiamo però essere speranzosi, sostenendo l’importanza della ricerca.

Luigi Gallucci

Fonti

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Francesco Centorrino

Sono Francesco Centorrino e scrivo per Microbiologia Italia. Mi sono laureato a Messina in Biologia con il massimo dei voti ed attualmente lavoro come microbiologo in un laboratorio scientifico. Amo scrivere articoli inerenti alla salute, medicina, scienza, nutrizione e tanto altro.

2 commenti su “La radioattività e il biorisanamento”

  1. “quando parliamo di ambiente e danni che l’uomo apporta, preferiamo però essere speranzosi, sostenendo l’importanza della ricerca”…………la speranza è che nelle prossime leggi di bilancio si riempiano di danari gli studi e la ricerca su argomenti come quello trattato dall’autore e che l’ “austerity” e la cura dimagrante la faccia il ministero della Difesa.

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    • Ovviamente quando parliamo di speranza e di portare avanti la ricerca, ci riferiamo al biorisanamento. Partendo dal presupposto che “problematiche” di questo tipo possono essere relative, e attualmente ci sono inquinanti di cui nessuno parla, come la plastica o prodotti di scarto industriali che inquinano quotidianamente il nostro pianeta. Tenendo sempre ben a mente che la ricerca rappresenta la base per giungere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili su scala ben più ampia.

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