Nel 1939 un ricercatore tedesco, Hans Gaffron, durante i suoi studi presso l’Università di Chicago, notò che l’alga verde Chlamydomonas reinhardtii a volte passava dalla produzione di ossigeno a quella di idrogeno. Gaffron non riuscì però a scoprire la causa che provocava questo cambiamento e per molti anni essa rimase sconosciuta. Dopo circa sessant’anni, il professor Anastasios Melis dell’Università della California a Berkeley scoprì che privando la coltura di alghe di zolfo, questa cessava di produrre ossigeno (normale fotosintesi), passando a produrre idrogeno. Approfondendo gli studi, scoprì che l’enzima responsabile di questa reazione è l’idrogenasi (Fig. 1), la cui attività, però, è inibita in presenza di ossigeno. Melis scoprì che, privando l’alga dello zolfo, questa interrompeva il flusso interno di ossigeno, creando così un ambiente in cui l’idrogenasi poteva funzionare producendo idrogeno. Si parla di bioidrogeno essendo quest’ultimo sintetizzato da microogranismi.
Produrre bioidrogeno
I processi biologici che portano alla produzione di idrogeno sfruttano i metabolismi di alcuni microrganismi (batteri, cianobatteri oltre a microalghe) in grado di produrre idrogeno usando come fonte di energia il calore ed un mezzo organico (batteri termofili), la luce ed un mezzo organico (batteri fotosintetici) o la luce e l’acqua (microalghe).
Processi di produzione di idrogeno che non prevedono l’utilizzo di organismi viventi possono essere l’elettrolisi (attualmente il metodo più utilizzato), l’ossidazione di composti metallici reversibili e lo steam reforming (molto adoperato anche se produce idrogeno meno puro).
Ad oggi l’unica soluzione per la produzione sostenibile di idrogeno sembra quella di combinare la produzione di idrogeno con lo sfruttamento di fonti energetiche rinnovabili (energia solare, energia eolica, energia dei moti ondosi, energia delle maree, energia da biomassa). Tra queste tipologie di fonti rinnovabili, una delle più promettenti è quella da biomassa poiché si tratta di un processo ad emissione zero di CO2 in quanto sebbene alla fine del processo la CO2 sia un co-prodotto dell’idrogeno, la stessa CO2 è stata prelevata dall’ambiente durante la formazione biologica della biomassa, chiudendo così il ciclo naturale del carbonio. La valorizzazione delle biomasse per la produzione di idrogeno è oggi molto studiata all’interno di un processo a due step: una prima fermentazione ed una seconda fase fotofermentativa.
La prima fase è costituita da una dark fermentation (fermentazione in assenza di luce) all’interno di termobioreattore. Il materiale di partenza (biomassa) viene fermentato in idrogeno molecolare, ioni idrogeno ed altri acidi organici dipendenti dal substrato di partenza. Tale bioconversione viene effettuata da particolari microrganismi appartenenti principalmente ai generi Clostridium (es. C. butyricum, C. tyrobutyricum, C. pasteurianum (Fig. 2)), Enterobacter (es. E. cloacae, E. aerogenes) ed Enterococcus (es. E. durans) in grado di produrre idrogeno molecolare grazie all’enzima idrogenasi.
Tuttavia, il coefficiente di produzione teorico dell’idrogeno non viene quasi mai raggiunto in fase di fermentazione dark a causa dei numerosi fattori limitanti del processo, uno dei quali è l’inibizione dell’enzima idrogenasi da parte dell’ossigeno, che rappresenta al momento il principale limite tecnologico di questo processo (obbligo di ambienti anaerobici).
Il secondo step del processo è la fase fotofermentativa: attraverso la biofotolisi diretta in molte microalghe e/o cianobatteri è possibile produrre in condizioni anaerobiche idrogeno e ossigeno a partire da molecole d’acqua (senza produzione di CO2 poiché non si parte da alcuna fonte carboniosa!), secondo la seguente reazione chimica:
4H2O + luce –> 2O2 + 4H2
La produzione di idrogeno, anche in questi microrganismi, è catalizzata dall’enzima idrogenasi. L’enorme limite all’utilizzo della biofotolisi diretta è che tale enzima è fortemente inibito dall’ossigeno che viene inevitabilmente prodotto simultaneamente nel processo.
Un’alternativa è rappresentata dai batteri fotoeterotrofi e da alcuni cianobatteri (eterocisti) che hanno invece la capacità di fissare l’azoto molecolare utilizzando come catalizzatore del processo l’enzima nitrogenasi, producendo come co-prodotto H2. Inoltre, in assenza di azoto, l’enzima nitrogenasi ha la capacità di catalizzare la produzione di idrogeno partendo da vari possibili sostrati, tra cui gli acidi organici prodotti durante il primo step di dark fermentation (Fig. 3).
Anche l’enzima nitrogenasi viene fortemente inibito dalla presenza di ossigeno e di ioni ammonio ed è proprio per questo che i bioreattori operano normalmente in condizioni anaerobiche, in assenza di azoto molecolare, in presenza di radiazione solare e con una presenza limitata di fonti di azoto.
In conclusione, le tecnologie dell’idrogeno in sostituzione di quelle che utilizzano combustibili fossili sono molto promettenti purché la ricerca scientifica riesca a superare alcuni limiti tecnologici.
Si ringrazia Nicola Di Fidio per l’articolo “Dark fermentation e bioidrogeno”
Fonti
Sitografia
- https://ingegneria.tesionline.it/ingegneria/articolo.jsp?id=1074
- http://balderi.pbworks.com/f/Raffaella_Campanile.pdf
Bibliografia
- Toscano, G., Ausiello, A., Micoli, L., Zuccaro, G., Pirozzi, D. (2013). Anaerobic digestion of residual lignocellulosic materials to biogas and biohydrogen. Chemical Engineering Transactions, 22:487–492.
- Guo, X. M., Trably, E., Latrille, E., Carrère, H., Steyer, J.-P. (2010). Hydrogen production from agricultural waste by dark fermentation: A review. International Journal of Hydrogen Energy, 35(19):10660–10673.
Crediti immagini